Tutti i progetti di Human Hall
DIRITTO ALL'IDENTITÀ
Riconoscere i migranti morti durante i percorsi migratori: un progetto importante, dalle valenze umanitarie fondamentali. Ma nevralgico anche dal punto di vista giuridico. La salvaguardia del diritto all’identità riguarda non solo chi ha perso la vita, anche di coloro che rimangono, le famiglie degli scomparsi, private del diritto di conoscere cosa è accaduto al loro caro.
L’attività di ricerca si concentra in particolare sullo studio di nuove strategie medico legali e scientifico forensi per promuovere i principi costituzionali di eguaglianza e non discriminazione, con l’obiettivo di favorire la costruzione di una società inclusiva.
Il progetto promuove iniziative di sensibilizzazione, la creazione di una mostra itinerante con oggetti delle persone scomparse per raccontare le vittime, i senza nome, i familiari che li cercano e le problematiche sociali e politiche correlate, una ricerca comparata con la normativa francese e la formulazione di prime linee guida nazionali sulle procedure di identificazione antropologica e medico-legale.
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INIZIATIVE
IL DIRITTO ALL'IDENTITÀ E IL POTERE DEGLI OGGETTI
Parla Cristina Cattaneo, professoressa ordinaria di Medicina legale
Perché il diritto all’identità è così importante?
Il diritto all’identità restituito anche da morti è fondamentale per tanti motivi. Per la storia e la vita di quella persona, per il rispetto della dignità, per le ripercussioni sui vivi. Restituire l’identità è importante non solo per chi non c’è più ma anche per la vita di chi rimane.
Perché il diritto all’identità riguarda anche chi resta?
Perché c’è anche un tema di diritti, che abbiamo riscoperto soprattutto con i migranti. Pensiamo alle vedove o agli orfani, ai ricongiungimenti, ma anche al diritto all’eredità. Abbiamo aiutato una madre che doveva emigrare in Australia con i figli piccoli. Il padre era morto in un naufragio, ma senza certificato di morte non veniva riconosciuta la vedovanza né la potestà di portare i bambini con sé. È solo uno dei tanti casi tangibili. Ma ci sono anche ripercussioni sulla salute mentale.
In che modo?
La medicina ha ormai definito cos’è la perdita ambigua: non essere certi che il proprio figlio, il proprio compagno o la propria compagna siano morti rappresenta un limbo che porta alla patologia psichiatrica. Una delle tante storie riguarda due ragazze italo-croate, che hanno perso il papà. Sono cresciute con la convinzione che le avesse abbandonate. Solo vent’anni dopo, sono riuscite a identificarlo, hanno saputo che era morto, hanno rielaborato il lutto, chiuso un cerchio e ricostruito una parte della loro vita. Lo stesso ha fatto la madre dell’uomo, che non aveva mai lasciato la sua casa in mezzo ai bombardamenti, pensando che il figlio sarebbe tornato. Poco prima di morire, le è stato restituito quello che ne era rimasto e lo ha potuto seppellire con sé.
Perché, viste le implicazioni così vaste, si parla così poco di diritto all’identità?
È un problema molto poco conosciuto, prima di tutto per ignoranza. A molti sembra assurdo che non si riesca a identificare una persona subito dopo la morte. Viene visto come un non problema. C’è poi un tema di discriminazione. I cadaveri non identificati sono dei discriminati, con uno stato sociale, un colore della pelle o una religione diversi. Sembra un problema che riguarda “gli altri”, lontano, soprattutto nel caso dei migranti. In realtà, avviene la stessa cosa nelle nostre città: le persone scomparse, salvo eccezioni, vivono ai margini, non hanno legami familiari. A Milano sono state sepolte 102 persone senza identità negli ultimi trent’anni.
Cosa ostacola, allora, il riconoscimento e, di conseguenza, il diritto all’identità?
Non è un problema tecnico. Non stiamo parlando di attività complesse, ma dell’Abc della medicina legale. È un processo relativamente semplice: basta ricercare tracce ante mortem dai famigliari e fare un’autopsia per raccogliere i dati post mortem. Non è neanche un problema di risorse. Oggi raccogliere un profilo genetico da un cadavere costa pochissimo. Abbiamo provato che si può fare. Però non si fa. Per mera volontà.
Il progetto Human Hall punta a promuovere una mostra itinerante sul diritto all’identità. Di cosa si tratta?
Vorremmo partire dalla piccola mostra che c’è già nel Museo Universitario delle Scienze Antropologiche Mediche e Forensi per i Diritti Umani (MUSA). L’obiettivo è duplice: da una parte raccoglie consenso sul diritto all’identità, raccontando cosa non funziona, per i migranti ma non solo; dall’altra mantenere viva la memoria delle tragedie, come il naufragio del 18 aprile 2015 nel quale morirono, al largo della Libia, circa mille persone. Quel barcone è ancora nel porto di Augusta. Vorremmo che fosse parte della mostra per raccontare – attraverso i loro oggetti e le loro parole scritte – la storia dei ragazzi che viaggiavano nella stiva, con la speranza di avere un futuro decente.
Cosa può raccontare un oggetto?
Identificare un cadavere è un’attività che faccio da tecnico, ma la prima cosa che ti colpisce è il pensiero all’attaccamento che c’era dietro un oggetto. Anche un biglietto del tram, ancor prima di vedere se e dove è stato timbrato, rimanda a pensieri ed emozioni. Quali erano i suoi desideri, dove voleva andare. Gli oggetti sono elementi potenti. Sono vettori di messaggi di uguaglianza. Al MUSA, il Museo del Labanof, invitiamo i ragazzi a svuotare le tasche e a confrontare i loro oggetti con quelli delle persone senza nome. Capiscono che sono simili: una foto, gli auricolari. Gli oggetti – anche semplici come uno spazzolino da denti – accorciano le distanze, raccontano le vite.
Quanto è importante che un progetto come questo non sia isolato ma parte di un Hub?
È fondamentale, per la società scientifica ma non solo. C’è un potenziale decuplicato perché, oltre alle competenze tecniche, è centrale la tutela dei diritti umani. Economisti, giuristi, informatici, media: gli esperti si parlano per creare soluzioni. Chissà, anche l’identificazione di una legge.
Perché il diritto all’identità è così importante?
Il diritto all’identità restituito anche da morti è fondamentale per tanti motivi. Per la storia e la vita di quella persona, per il rispetto della dignità, per le ripercussioni sui vivi. Restituire l’identità è importante non solo per chi non c’è più ma anche per la vita di chi rimane.
Perché il diritto all’identità riguarda anche chi resta?
Perché c’è anche un tema di diritti, che abbiamo riscoperto soprattutto con i migranti. Pensiamo alle vedove o agli orfani, ai ricongiungimenti, ma anche al diritto all’eredità. Abbiamo aiutato una madre che doveva emigrare in Australia con i figli piccoli. Il padre era morto in un naufragio, ma senza certificato di morte non veniva riconosciuta la vedovanza né la potestà di portare i bambini con sé. È solo uno dei tanti casi tangibili. Ma ci sono anche ripercussioni sulla salute mentale.
In che modo?
La medicina ha ormai definito cos’è la perdita ambigua: non essere certi che il proprio figlio, il proprio compagno o la propria compagna siano morti rappresenta un limbo che porta alla patologia psichiatrica. Una delle tante storie riguarda due ragazze italo-croate, che hanno perso il papà. Sono cresciute con la convinzione che le avesse abbandonate. Solo vent’anni dopo, sono riuscite a identificarlo, hanno saputo che era morto, hanno rielaborato il lutto, chiuso un cerchio e ricostruito una parte della loro vita. Lo stesso ha fatto la madre dell’uomo, che non aveva mai lasciato la sua casa in mezzo ai bombardamenti, pensando che il figlio sarebbe tornato. Poco prima di morire, le è stato restituito quello che ne era rimasto e lo ha potuto seppellire con sé.
Perché, viste le implicazioni così vaste, si parla così poco di diritto all’identità?
È un problema molto poco conosciuto, prima di tutto per ignoranza. A molti sembra assurdo che non si riesca a identificare una persona subito dopo la morte. Viene visto come un non problema. C’è poi un tema di discriminazione. I cadaveri non identificati sono dei discriminati, con uno stato sociale, un colore della pelle o una religione diversi. Sembra un problema che riguarda “gli altri”, lontano, soprattutto nel caso dei migranti. In realtà, avviene la stessa cosa nelle nostre città: le persone scomparse, salvo eccezioni, vivono ai margini, non hanno legami familiari. A Milano sono state sepolte 102 persone senza identità negli ultimi trent’anni.
Cosa ostacola, allora, il riconoscimento e, di conseguenza, il diritto all’identità?
Non è un problema tecnico. Non stiamo parlando di attività complesse, ma dell’Abc della medicina legale. È un processo relativamente semplice: basta ricercare tracce ante mortem dai famigliari e fare un’autopsia per raccogliere i dati post mortem. Non è neanche un problema di risorse. Oggi raccogliere un profilo genetico da un cadavere costa pochissimo. Abbiamo provato che si può fare. Però non si fa. Per mera volontà.
Il progetto Human Hall punta a promuovere una mostra itinerante sul diritto all’identità. Di cosa si tratta?
Vorremmo partire dalla piccola mostra che c’è già nel Museo Universitario delle Scienze Antropologiche Mediche e Forensi per i Diritti Umani (MUSA). L’obiettivo è duplice: da una parte raccoglie consenso sul diritto all’identità, raccontando cosa non funziona, per i migranti ma non solo; dall’altra mantenere viva la memoria delle tragedie, come il naufragio del 18 aprile 2015 nel quale morirono, al largo della Libia, circa mille persone. Quel barcone è ancora nel porto di Augusta. Vorremmo che fosse parte della mostra per raccontare – attraverso i loro oggetti e le loro parole scritte – la storia dei ragazzi che viaggiavano nella stiva, con la speranza di avere un futuro decente.
Cosa può raccontare un oggetto?
Identificare un cadavere è un’attività che faccio da tecnico, ma la prima cosa che ti colpisce è il pensiero all’attaccamento che c’era dietro un oggetto. Anche un biglietto del tram, ancor prima di vedere se e dove è stato timbrato, rimanda a pensieri ed emozioni. Quali erano i suoi desideri, dove voleva andare. Gli oggetti sono elementi potenti. Sono vettori di messaggi di uguaglianza. Al MUSA, il Museo del Labanof, invitiamo i ragazzi a svuotare le tasche e a confrontare i loro oggetti con quelli delle persone senza nome. Capiscono che sono simili: una foto, gli auricolari. Gli oggetti – anche semplici come uno spazzolino da denti – accorciano le distanze, raccontano le vite.
Quanto è importante che un progetto come questo non sia isolato ma parte di un Hub?
È fondamentale, per la società scientifica ma non solo. C’è un potenziale decuplicato perché, oltre alle competenze tecniche, è centrale la tutela dei diritti umani. Economisti, giuristi, informatici, media: gli esperti si parlano per creare soluzioni. Chissà, anche l’identificazione di una legge.
IDENTITÀ TRA MEDICINA E DIRITTI
Parla Cecilia Siccardi, ricercatrice in Diritto costituzionale
Da dove nasce l’esigenza di tutelare il diritto all’identità?
L’identificazione di un corpo senza nome, come le migliaia di casi di migranti morti nel tentativo di attraversare il Mediterraneo, si muove oggi all’interno di un vuoto normativo. Non esiste, ad esempio, un obbligo di autopsia, che può essere disposta dalla Procura solo in caso sia utile alle indagini. Il recupero di un cadavere e la sua identificazione non è quindi solo un tema medico-legale ma interdisciplinare, che coinvolge anche il diritto e i diritti umani.
In che modo?
C’è una questione di diritto alla salute, di dignità, perché lasciare un corpo senza nome è un trattamento disumano e degradante. Ma il tema non riguarda solo chi ha perso la vita. Senza identificazione, le famiglie continueranno la ricerca e non hanno accesso ai diritti connessi con la morta di un parente, come quello all’eredità o alla casa.
A cosa punta il progetto?
Stiamo studiando, in collaborazione con l’Institut Médico-légal Paris, l’ordinamento francese, caratterizzato da problematiche simili. Con l’obiettivo di definire linee guida sull’identificazione dei migranti. Il progetto vuole inoltre divulgare il tema, con una serie di iniziative, tra le quali una mostra itinerante che raccoglie gli oggetti dei migranti.
Qual è il contributo dell’Hub?
Nessun settore disciplinare, ormai, può affrontare un tema in modo monolitico, ancor meno quando si parla di diritti umani. È questo il valore di Human Hall: mettere in rete e valorizzare competenze e conoscenze diverse. Come dimostra il diritto all’identità, nel quale si intrecciano aspetti medico-scientifici e giuridici.
Da dove nasce l’esigenza di tutelare il diritto all’identità?
L’identificazione di un corpo senza nome, come le migliaia di casi di migranti morti nel tentativo di attraversare il Mediterraneo, si muove oggi all’interno di un vuoto normativo. Non esiste, ad esempio, un obbligo di autopsia, che può essere disposta dalla Procura solo in caso sia utile alle indagini. Il recupero di un cadavere e la sua identificazione non è quindi solo un tema medico-legale ma interdisciplinare, che coinvolge anche il diritto e i diritti umani.
In che modo?
C’è una questione di diritto alla salute, di dignità, perché lasciare un corpo senza nome è un trattamento disumano e degradante. Ma il tema non riguarda solo chi ha perso la vita. Senza identificazione, le famiglie continueranno la ricerca e non hanno accesso ai diritti connessi con la morta di un parente, come quello all’eredità o alla casa.
A cosa punta il progetto?
Stiamo studiando, in collaborazione con l’Institut Médico-légal Paris, l’ordinamento francese, caratterizzato da problematiche simili. Con l’obiettivo di definire linee guida sull’identificazione dei migranti. Il progetto vuole inoltre divulgare il tema, con una serie di iniziative, tra le quali una mostra itinerante che raccoglie gli oggetti dei migranti.
Qual è il contributo dell’Hub?
Nessun settore disciplinare, ormai, può affrontare un tema in modo monolitico, ancor meno quando si parla di diritti umani. È questo il valore di Human Hall: mettere in rete e valorizzare competenze e conoscenze diverse. Come dimostra il diritto all’identità, nel quale si intrecciano aspetti medico-scientifici e giuridici.
DIRITTO ALL'IDENTITÀ: PERCHÈ VA RICONOSCIUTO
Parla Lorenzo Franceschetti, ricercatore IN Medicina legale
Perché dedicare spazio e risorse al diritto all’identità?
Lo scopo del progetto è, da un lato, sensibilizzare persone che non si occupano della questione dal punto di vista tecnico; dall’altro sollecitare enti e istituzioni, in modo tale che il riconoscimento sia più sistematico e non lasciato alla volontà dei singoli. Il diritto all’identità è un tema tanto ampio quanto sottostimato.
Come mai?
Per molti motivi. Si dice spesso che il diritto all’identità riguarda i migranti provenienti da Paesi che non hanno interesse o possibilità di recuperare e riconoscere i corpi. Ma, ogni giorno, vediamo che non è così. Quando c’è la volontà, garantire un’identità è possibile. Lo ha confermato, ad esempio, il caso dello tsunami del 2004. Avendo colpito località turistiche e, di conseguenza, cittadini occidentali, è stata messa in piedi un’organizzazione enorme, prima per soccorrere e poi per identificare i cadaveri.
Dal punto di vista operativo, giorno per giorno, quali sono le difficoltà principali?
Ci sono freni burocratici. Non essendoci un diritto comunemente riconosciuto, è molto difficile riuscire a scavalcare alcuni ostacoli. Se, ad esempio, un cadavere è oggetto di indagini, è possibile che non ci sia una condivisione tra Stati, a volte persino tra procure. C’è, quindi, la necessità di snellire le procedure. Per questo sarebbe auspicabile la creazione di database con informazioni a livello europeo e, in prospettiva, mondiale.
Oltre a questo, però, c’è un tema di conoscenza: il diritto all’identità è poco noto, perché percepito come lontano. Ma non riguarda solo i morti, ha effetti sulla vita delle persone. Per questo è importante far comprendere che quello che facciamo come medici legali è un’attività medica: identificare un cadavere è un’azione curativa, che aiuta le persone. Perché ha un enorme peso sulla vita e sulla salute di chi resta.
Perché dedicare spazio e risorse al diritto all’identità?
Lo scopo del progetto è, da un lato, sensibilizzare persone che non si occupano della questione dal punto di vista tecnico; dall’altro sollecitare enti e istituzioni, in modo tale che il riconoscimento sia più sistematico e non lasciato alla volontà dei singoli. Il diritto all’identità è un tema tanto ampio quanto sottostimato.
Come mai?
Per molti motivi. Si dice spesso che il diritto all’identità riguarda i migranti provenienti da Paesi che non hanno interesse o possibilità di recuperare e riconoscere i corpi. Ma, ogni giorno, vediamo che non è così. Quando c’è la volontà, garantire un’identità è possibile. Lo ha confermato, ad esempio, il caso dello tsunami del 2004. Avendo colpito località turistiche e, di conseguenza, cittadini occidentali, è stata messa in piedi un’organizzazione enorme, prima per soccorrere e poi per identificare i cadaveri.
Dal punto di vista operativo, giorno per giorno, quali sono le difficoltà principali?
Ci sono freni burocratici. Non essendoci un diritto comunemente riconosciuto, è molto difficile riuscire a scavalcare alcuni ostacoli. Se, ad esempio, un cadavere è oggetto di indagini, è possibile che non ci sia una condivisione tra Stati, a volte persino tra procure. C’è, quindi, la necessità di snellire le procedure. Per questo sarebbe auspicabile la creazione di database con informazioni a livello europeo e, in prospettiva, mondiale.
Oltre a questo, però, c’è un tema di conoscenza: il diritto all’identità è poco noto, perché percepito come lontano. Ma non riguarda solo i morti, ha effetti sulla vita delle persone. Per questo è importante far comprendere che quello che facciamo come medici legali è un’attività medica: identificare un cadavere è un’azione curativa, che aiuta le persone. Perché ha un enorme peso sulla vita e sulla salute di chi resta.
Cristina Cattaneo, Cecilia Siccardi, Lorenzo Franceschetti